RAINBOW4AFRICA HEALTH MISSION 2009:

 

AYDER HOSPITAL, MEKELLE, ETIOPIA

DANAKIL DEPRESSION EXPEDITION

LALIBELA, LE CHIESE NELLA ROCCIA

BAHIR DAR, IL LAGO TANA E LE CASCATE DEL NILO AZZURRO

ADDIS ABEBA, I RESTI DELL’UOMO E DELLL’EPOCA COLONIALE

 

05/12/09

Turin Airport...

Cominciamo l'avventura con il primo problema a Caselle, in Alitalia non ci riconoscono i kg di bagaglio che Ethiopian offre sulla tratta intercontinentale (e dovrebbe perchè vince la tratta intercontinentale sugli scali) dicendo che non c'è agreement alcuno tra CAI e gli etiopi... fatto stà che mi tocca discutere e trattare per 15kg = 150€ da Torino a Roma. Sperando ovviamente che a Roma tutto sia OK. Fortunatamente a Roma nessun probema, check-in rapido e attesa lunghissima se non fosse che, vista l'occasione, sono riuscito a vedermi con Gianfranco... erano 9 anni che non ci si vedeva... davvero una bella serata! Splendida moglie, gentile e cordiale, bella casa (e non c'erano dubbi!) e cena splendida anche se fugace alla polisportiva locale, pasta cons pigola e pachini da urlo!!!

Andiamo con lui nuovamente in aeroporto, ci salutiamo non senza dispiacere, attendiamo le nostre belle tre orette e poi ci imbarchiamo per Addis dove arriveremo in orario, domenica mattina 07.30 local time (05.30 italian time) ma, ahinoi, senza dormire seriamente dal giorno prima...

06/12/09

Addis Airport...

Dobbiamo restartci fino alle 14.30, ora di partenza del volo per Mekelle.

Ritiriamo i bagagli ma la dogana vuole vedere cosa portiamo, visto che ogni passaggio fai i raggi, hanno visto cose strane.

Apro le sacche e... ma voi dovete avere una lettera del governo con sopra indicato in numero e tipologia cosa portate e a chi lo portate... beh, 15min di discussione sono sufficenti (evidentemente non era roba molto intrigante x loro) e passiamo.

Al check-in fanno storie per i kg, chi dice venti a testa, chi trenta... ma alla fine, anche qui, passiamo indenni, e ci attestiamo comodi comodi sui divani al piano superiore, vicino al Lounge delle’Ethiopian Airlines.

Poi, ecco che si scatena la migliore sceneggiata africana:

Cinque congolesi, tra uomini e donne, in scalo a Addis, provenienti dalla Cina via Parigi, e che dovevano andare a Kinshasa, perdono il volo causa... già, causa cosa? Easy, loro arrivano molto al pelo perchè gli altri voli hanno fatto ritardo... si mettono in fila ma nello stesso gate imbarcano 2 voli... il loro e uno per Dubai.

Non parlano inglese e in Etiopia non parlano francese, avrete già capito! :-)

Nell'arco di quattro ore accade tutto e il contrario di tutto, pianti, ribaltamenti di scrivanie e pc, crisi isteriche e di panico...

Perchè i loro bagagli erano in volo per casa e loro erano a terra e senza soldi (naturalmente non è vero). In realtà, temevano che glie li fregassero a Kinshasa visto che nessuno li avrebbe ritirati.

Proviamo a intervenire per tradurre, mentre l'aereo ancora non rullava ma, da buoni spaccaballe, quali sono gli eletti etiopi... li lasciano giù.

Alla fine riusciamo a fargli avere (almeno così parve dai documenti) hotel, cibo e nuovo volo l’indomani, tutto a spese di Ethiopian, che dopo tutto non era nella posizione di banfare molto (bagaglio onboard da solo = bomba!)

Termina la pantomima, prendiamo il nostro ultimo volo e arriviamo in orario a Mekelle dove incontriamo Issak, il nostro contact people.

Mekelle, cominciamo col portare tutto il materiale di R4A all'Ayder Hospital dove veniamo accolti nel miglior modo possibile... Passiamo le consegne, firmiamo i documenti di rito (non prima di aver bevuto una coca fresca con il management locale) un paio di foto a suggellare l'evento, che da praticamente il La alla missione, prima di salutarci ci mostrano l’ospedale e i suoi reparti, incontriamo anche un paio di dottoresse italiane li in missione per una ONG, ad occuparsi di dermatologia, sono contente di vederci ed anche noi di vedere che qualcosa sembra muoversi per il verso giusto. Issak nel mentre si sbottona e mi racconta cosa ne pensa la gente del posto dei loro medici... Ne esce una visione non bella; non si fidano di loro perchè, a suo dire, non hanno a cuore la salute dei malati ma solo l’arricchimento provocato dala gestione dei fondi governativi, tanto che a meno di essere in davvero cattive condizioni, la gente preferisce curarsi e morire in casa, grazie alla medicina tradizionale. Mi porta un esempio da lui vissuto dove, entrando in casa di un amico, trova una persona sistemata in una delle stanze su una branda, molto mal messa tanto che il medico di villaggio non sa che fare oltre qualche esoterico rituale e dargli qualche improbabile intruglio. Al mattino il poveretto è morto, e la giustificazione che gli hanno dato è perchè si erano scordati di chiudere la porta cosi che il vento, entrando, se lo è portato via con se...

Passa il tempo e finalmente ho notizie di Mattia che, nel mentre ha conosciuto Germano e con lui sono andati ad incontrare l'agenzia che ci dovrebbe portare in Dancalia nei i prossimi cinque giorni... Dallol, il mercato del sale, Afrera, Asa Ale, Erta Ale, nomi che da anni vagano per la mente saltando ogni tanto alla ribalta... finalmente li raggiungeremo.

E quì comincia il bello del trattare preventivamente attraverso email, scritte per conoscenza, recanti preventivi che, all'atto pratico, quandi si è de visu, non corrispondono minimamente al reale.

Samson e la sua agenzia si rivelano inaffidabili perchè in due giorni ha raddoppiato i costi peraltro già ben dettagliati, dando spiegazioni come; senza cuoco non si va in Dancalia, inoltre le pentole e i fornelli costano un botto, e poi il gasolio, e poi... Un sacco di scuse per portare a casa qualcosa come 43000 birr.

Issak nel mentre, scaltro qual'è, ci suggerisce di non chiudergli la porta sul muso ma di prendere tempo, e ci prospetta altre possibilità più consone al caso.

Decidiamo di seguire l’opzione di Issak e ci rechiamo al Tourist Hotel (che è un bar) dove incontriamo Habtum, suo amico e guida turistica. Per farla breve, tra un caffè e una birra, nel fumoso e soffuso locale, scopriamo che, ovviamente, il costo si riduce e non di poco, quasi fino a quanto ci eravamo messi in testa che potesse essere un costo sostenibile. Inoltre, a suo dire l’auto è buona e si può partire... Una stretta di mano a suggellare l’intento e sembra davvero fatta se non che, il mattino seguente, Habtum telefona dicendo che l’auto promessa non c’è più a causa di un fantomatico incidente notturno (l’ennesima balla) e perciò siamo di nuovo al “pian dei babi”.

07/12/09

Mekelle...

Mattia, vista la situazione, sente un amico, in Svizzera, per avere il telefono del suo contatto locale di Mekelle, usato nell’ultimo viaggio di un paio di anni prima e mentre io sono in giro per ultimare le questioni pratiche con l’Ospedale e i loro medici, lui e Germano vanno a incontrare questa nuova guida.

Germano, l’abbiamo incontrato li, a Mekelle, dopo un rapido scambio di email con l’obiettivo di fare insieme la Dancalia essendo che lui è da solo, e noi solo in 2, sperando così di condividere gioie, dolori, costi e incazzature.

É un bel tipo, uno di quelli che quando li si incontra lungo le piste africane non si può non farci qualche giorno insieme... e così è stato.

Ha un Iveco VM camperizzato, vecchiotto ma adeguatamente affidabile e comodo e farà da secondo veicolo per la nostra piccola e modesta spedizione tra gli Afar. Tanto più che non è possibile trovare due 4x4 buoni ed affidabili, almeno quì a Mekelle, e il numero minimo di veicoli per avere i permessi è pari a due. Mal comune mezzo gaudio, è proprio il caso di dirlo...

Torniamo all’ultima guida: anche questi non ha la macchina, ma ne tratta apertamente una con un noleggiatore (scopriremo a breve che è l’unico in zona ad avere un 4x4 a posto), fa la sua proposta complessiva e Mattia e Germano lo lasciano ringraziandolo e dicendo che ne avrebbero parlato con me prima di dare lui una qualsivoglia risposta.

Habtum; anche lui torna alla carica dicendo di non preoccuparci perchè ha trovato un’altra auto per noi e che quindi si può partire... noi gli chiediamo di vedere il mezzo e... quando arriva... ma guarda te, è lo stesso Patrol bianco con i vetri oscurati che l’altro personaggio aveva mostrato ai miei compagni!

E quì inizia il calvario; perchè, in pratica, entrambe le guide si stavano contendendo la stessa macchina ed anche perchè, se lo avessimo saputo prima (e quì il buon Issak direi che ha toppato clamorosamente!), saremmo andati noi direttamente dal noleggiatore per contrattare il prezzo e per poi, dire a lui di trovarci la guida più adatta... insomma, sarebbe stato meglio fare esattamente il contrario di quanto stava accadendo.

Ma l’Africa riserva sorprese anche chi è convinto di conoscerne i meandri più bui... Scaramucce, mezze liti, pianti soffocati, ultimatum, minacce... tutto lo scibile degli atteggiamenti vengono fuori da entrambe le parti in gioco per poi, alla fine, convenire che, siccome parlammo per primi con Habtum, cosa peraltro vera, avremmo scelto lui e i suoi servizi.

Si va quindi a fare la spesa e a comperare l’acqua, per noi e per tutti i personaggi che dal giorno seguente sarebbero stati con noi... e non saranno pochi! Già dalla spesa vengono fuori le prime inesattezze; i 1200 birr che Habtum ci aveva chiesto per lui e tutto l’entourage non bastano che per il cibo (e l’acqua?) anche perchè come un bambino di cinque anni, con tutti quei soldi in mano, è entrato credo nel market più fornito e caro della città, cosa che a noi non spostava il problema di una virgola ma a lui si.

Questo no è che il preludio di quanto accadrà nei giorni seguenti.

08/12/09

Mekelle...

Si parte!

Oggi dobbiamo fare qualcosa come 240km per raggiungere prima Berheale e poi Ahmed Ela, sul limitare della Piana del Sale, nostra base per due giorni.

La strada non è male per almeno metà del percorso anche se, essendo la Dancalia una depressione, e partendo noi da oltre 2000 msl, si dovrà scendere un bel po’ ed infatti ecco che scendiamo lungo una pista ben tenuta ma ripida fino a Berheale e poi, una volta consegnati i documenti, effettuate le registrazioni dei passaporti, e reclutati sul posto guida locale più due poliziotti, che ci seguiranno per tutti e cinque i giorni, partiamo per Ahmed Ela, che si rivelerà essere uno squallido, sporco, caldo villaggio di confine, di quelli da dove una persona sana di mente non vede l’ora di andarsene.

La pista che da Berheale a Ahmed Ela segue il canyon si fa sempre più dura, ripida e brutta, tanto che i poveri freni del VM di Germano sono praticamente arrivati alla frutta. Ma siamo arrivati alla meta ed anche se già fa buio, siamo contenti di essere li. Da ora in poi, o almeno fino a quando non si rientrerà a Mekelle, sarà tutto pressocchè piatto.

Facciamo quattro passi verso il pozzo e scorgiamo già le carovane dei cammelli, piazzate tutto intorno per la notte, i cammellieri che impastoiano gli animali, altre persone che attingono acqua dal pozzo e bambini che schiamazzano un po’ dappertutto.

Prendiamo possesso della nostra capanna per la notte, ma visto che ci sono i letti (brande di legno con la rete fatta in corda intrecciata), e visto che fa davvero caldo, chiediamo al padrone del campement di poterli tirare fuori e dormire sotto le stelle... Nessun problema però, a suo dire, i 100 birr che costa la capanna non comprendolo i letti fuori ma solo dentro essa e quindi dovremo sborsare altri 25 birr per ciascun letto e per ciascuna notte che dormiremo fuori! Pensate un secondo se, una volta arrivati in hotel, vi dicessero che materassi e cuscini non sono compresi nel costo della camera... ecco, abbiamo fatto la stessa faccia!

09/12/09

Ahmed Ela...

Prima dell’alba siamo già svegli, la notte è trascorsa serena e abbiamo anche ben dormito, pertanto siamo pronti a scendere armati di torcia e di fotocamera per vedere la partenza delle carovane... è ancora buio, ma tutto è frenetico ed il lavorio che riusciamo a intravedere ci fa presagire una bella giornata, ricca di emozioni e situazioni da riporre con cura nel cassetto delle esperienze fatte.

Le carovane partono, verso il pallido sole all’orizzonte e noi rientriamo per prendere i mezzi e recarci a Dallol, località a Nord della Piana del Sale, dove strane concrezioni saline, alimentate da piccoli geygers, formano uno degli spettacoli preistorici mai nemmeno immaginati...

Sembra facile, ma fare stare dieci persone dentro un Patrol, benchè passo lungo, non è cosa da tutti i giorni.

Dieci perchè, nonostante dobbiamo lasciare giù la nostra scorta, anche se pagata, ci tocca prendere i militari (sei) più due scout Afar, e dobbiamo anche pagarli per l’intera giornata, altrimenti non si può prosegure oltre.

Tant’è che alla fine arriviamo ad un accordo economico e logistico, ce la facciamo a stiparli in auto (Mattia sale sul VM), e via che si va... dapprima seguendo le carovane, poi per alcuni chilometri nel fango per le recenti pioggie che dagli altopiani hanno portato fin li l’acqua allagando la zona, e poi finalmente, sulla crosta salina fino alla collina di Dallol. Sono 30km in tutto e un’oretta è più che sufficente.

Fermiamo i mezzi e attendiamo di scendere fintanto che i militari si siano appostati sulle alture poi, con gli scout e il loro capitano, cominciamo a salire.

Bastano una quindicina di minuti e siamo davvero in un altro pianeta!

Colori sgargianti che coprono l’iride dell’arcobaleno, pozze di acqua calda, sbuffante, solforosa al punto che non riesci a respirare, forme saline che paiono a volte funghi, animali, merletti, tappeti orditi da sapienti mani...

É incredibile quello che abbiamo dinnanzi a noi!

Le situazioni fotografiche si sprecano e l’entusiasmo è alle stelle ma il sole è davvero feroce nonostante siano le nove del mattino perciò ci accingiamo a tornare ai mezzi per andare verso Assa Ale, la montagna rossa.

La piana salina che traversiamo ci regala momenti splendidi...

Prima, notiamo che proprio sul precedente nostro tragitto, ora c’è acqua, molta acqua, limpida come fosse di bottiglia... evidentemente portata li dai monti e dal vento. Poi, strane conformazioni marroni, fatte essenzialmente di impurità sabbiosa, uscita fuori dal sale assoluto, grazie al fenomeno delle piogge e dell’evaporazione istantanea, formano degli intrecci romboidali perfetti e che si estendono a perdita d’occhio.

Poco oltre ancora acqua e poi solo più il nulla fino alla montagna rossa.

Anche qui stesso iter; attendiamo il dispiegarsi delle forze e poi scendiamo per un buon giro nella zona.

Ora non ci resta che proseguire per il Salt Market, o per meglio dire il Salt “Hell” Market, visto di cosa si tratta...

Qui tutto gira intorno all’estrazione, la partizione, il confezionamento in tavole di forma regolare, la vendita, il caricamento sui cammelli e poi la partenza per luoghi lontani... dicevo, tutto gira intorno al sale! Che non viene consumato dagli umani, anche se all’assaggio non avevo mai sentito nulla di più puro, sottile e salato, bensì viene usato per l’integrazione alimentare del bestiame. Un po’ come si faceva, e si fa ancora oggi, alle saline di Taudenni o di Bilma.

É l’inferno in terra... Le persone sono bianche (di sale), sudate, magre per la fatica e le privazioni di questa strana vita che gli è toccata di vivere.

Però c’è una sua logica, che permette alle varie etnie di fare il loro mestiere, gli uni affianco agli altri, senza venire alle armi (quaggiù non si viene alle mani ma, al kalashnikov), ricavando qualche spicciolo per campare.

In pratica:

a) C’è chi spacca la crosta salina a colpi di ascia e con bastoni la solleva e divide dall’ambiente circostante. Finendo con le gambe nell’acqua salata che sotto la crosta è ovunque, coprendosi a sua volta di sale per l’evaporazione del sudore in aggiunta all’umidità dell’aria.

b) C’è chi prende la crosta precedentemente divisa e la fa a pezzettoni grandi quanto un paio di scatole da scarpe, cominciando a toglierne il superfluo (tipicamente assottigliandone lo spessore, per lasciare la parte “buona” intatta).

c) C’è chi, a questo punto, con lavoro di fino e un’ascia più piccola, a mo’ di cazzuola, riduce quanto fatto alle dimensioni più consone alla vendita: tavolette da 30x45cm circa, spesse 6cm e del peso di 8 chilogrammi.

d) C’è chi compera queste tavolette, i proprietari delle carovane, pagandole ben meno di 2 birr caduna, e che poi le danno ai cammellieri, loro dipendenti, per sistemarle a dorso degli animali.

e) I cammellieri, una volta sistemato il carico, le porteranno lontano da quì, con marce di molti giorni, fino ai mercati interni (ne abbiamo viste sia a Mekelle che a Bahir Dar) per venderle ai commercianti locali, al costo finale di 2 birr ciascuna.

In pratica, l’inferno di cui sopra, vive grazie al fatto che ogni cammello porta venti tavolette da otto chili (cioè centosessanta chili, povero animale!!!) per un costo complessivo che non supera i 40 birr (che sono meno di 2.5 euro) ed un ricavo che, per ciascuno degli attori, difficilmente arriverà a un decimo di tale somma... Dire quindi che una giornata di duro ed estenuante lavoro rechi guadagno quanto basti a pagarsi una birra e un piatto di ‘ngera, è dire molto... E vi lascio immaginare quanto sale, a fine giornata, si sarà dovuto letteralmente toccar con mano.

Insomma, si muore di fatica per mangiare qualcosa che l’indomani ti possa fare andare là, a morire nuovamente di fatica per poi la sera tornare, e magari mangiare qualcosa che...

In tutto questo va aggiunto che da Ahmed Ela al Salt Market, a piedi, ci si mette almeno un paio d’ore, con 45 gradi all’ombra (che non esiste) e nei mesi più freddi. Poi, una volta rientrati al villaggio, col buio, bisognerà riaffilare le lame degli utensili, pagare l’acqua del pozzo per lavarsi e, in ultimo, se si è fortunati, trovare un posto riparato dal vento e privo degli escrementi degli animali per cercare di dormire qualche ora.

Gli asini! Dimenticavo gli asini...!

Ci sono carovane di cammellli e carovane di asini, le prime più grandi, per tragitti più lunghi. Le seconde per il lavoro di bassa manovalanza, facendo capolino da un villaggio all’altro... meno tavolette per ogni schiena, meno strada da fare a piedi, è vero, ma anche meno guadagno a disposizione... dato che al villaggio dove si è giunti, prima di tornare indietro, si venderà la merce ad un nuovo commerciante proprietario di un’altra colonna di asini che a sua volta partirà per quello seguente, e così via.

Torniamo al nostro capanno con i letti all’esterno.

Salutiamo la scorta armata e paghiamo loro la mancia (qui anche le mance vengono discusse e stabilite in anticipo) ma non gli va bene perchè pochi giorni prima un altro gruppo di turisti gli diede di più! E vai a spiegargli che una mancia non ha un valore “proprio” ma è un’offerta... alla fine desistono, tanto sono pagati comunque dal governo (sempre che li paghi) e i 300 birr pattuiti bastano.

Il caldo del Salt Market non era poi così irresistibile, nel Sahara ho vissuto di peggio ma, evidentemente, questo luogo è stregato anche da questo punto di vista, e mi tocca di starmene mogio mogio dentro il VM cercando di recuperare forma, bevendo una bottiglia di thè caldo e con molto lime e zucchero... Praticamente dall’una del pomeriggio fino a che non odo delle voci straniere. Sono le voci di due ragazzi sudafricani che partirono in mtb (si, in bici!) dalla Scozia per raggiungere casa, a CapeTown, più un loro connazionale (non meno matto di loro) che, durante il suo peregrinare per l’Africa tutta, li aveva caricati sul LR in Sudan quando li trovò febbricitanti per la malaria.

Fanno un tratto di viaggio insieme, magari fino a Sud dell’Uganda, chissà, per ora sono li, arrivati via Erta Ale da soli, uno è a terra, con lo stomaco a pezzi e gli diamo subito quelche medicina e una bottiglia d’acqua buona, gli altri preparano porridge per la colazione dell’indomani e ci invitano a cenare insieme alla loro tavola imbandita che offre quanto segue: patate lesse, majonese, pomodori, verdura e sottaceti, qualche arancia... il tutto ovviamente tenuto in macchina da chissà quando e, senza frigorifero (se non sono morti fin’ora è perchè gli afrikaans hanno un DNA diverso dal nostro, non c’è altra soluzione).

La cena è pronta, e con l’aggiunta delle nostre razioni di tonno e carne, la nostra frutta (arance, mandarini, banane e ananas) e la nostra acqua in bottiglia, vien fuori proprio una bella serata.

É sempre un piacere sedersi con chi, estraneo e sconosciuto fino a quel momento, è li come te, con le stesse aspettative di viaggio e la stessa voglia di parlarne. Veniamo a sapere che arrivati al vulcano (nostra meta l’indomani) hanno avuto momenti difficili per via del fatto che da soli no si può andare sulla cima (e nemmeno arrivare fin li), che non si può sedere all’ombra di qualsivoglia capanna senza pagare l’obolo, eccetera eccetera. Condito il tutto da una canna puntata sul naso e qualche raffica di kalashnikov tirata in aria, a rinforzo del “dovuto pagamento” ed anche loro, nonstante l’indole indomabile degli afrikaans, alla fine hanno ceduto e sono saliti fino alla cima, a sentire il respiro del dragone.

Ci dicono che l’ambiente è inquetante ma incredibile, e che ne rimarremo stregati anche noi.

Li salutiamo per la notte, non prima di avergli lasciato i nostri riferimenti dell’ospedale di Mekelle e di Issak, nel caso ne avessero avuto bisogno, e ci accomodiamo sulle nostre reti di corda a guardar le stelle.

PS: quando torneremo a Mekelle, da Issak non udremo di nessun incontro con altri “Farangi” ciò sta a dire che evidentemente si sono rimessi, buon per loro.

10/12/09

Erta Ale Volcain...

Al Campement salutiamo tutti quanti, riprendiamo possesso della nostra guida e dei due poliziotti e partiamo per raggiungere le falde del vulcano, distanti un centinaio di chilometri dalla nostra posizione. Tra noi e lui è un susseguirsi di enormi ouadi con molta erba, tratti di piatto e dunette di sabbia non troppo compatta, le piogge delle settimane precedenti hanno disseminato agguati ovunque, tanto che alcuni gruppi di turisti incontrati precedentemente a Mekelle, non vi erano potuti passare. È il turno del “fil rouge” di Giochi senza Frontiere, e mai paragone fu così calzante... Habtum conosce la strada, dice, ma di fatto finiamo nell’erba, tra le dune, rischiamo di cascare in fossati scavati dall’acqua, entriamo in radi aglomerati di capanne seminando curiosità e paura, chiediamo la strada, ce la indicano ma la riperdiamo... pur tuttavia il buon GPS conosce, e ci indica, la meta del nostro peregrinare, che per più di due ore rimane a circa ventiquattro chilometri da noi, a Sud-Sud Est, mentre noi ne facciamo quasi il triplo.

Sono oramai le tredici passate e finalmente arriviamo al crossroad, dove dovremo fermarci perchè a dir loro fa troppo caldo, e prelevare questa volta una guida ed altri due scout Afar. Finisce, sempre a dir loro, la calura pertanto ripartiamo non senza aver pagato per l’ombra del capanno, i famosi 200 birr che valsero le schioppettate ai sudafricani.

Da quì al campo base mancano meno di trentacinque chilometri, venti dei quali, i primi, buoni... gli ultimi invece su una pista scavata tra le colate laviche, da percorrere a non più dei cinque, dieci chilometri l’ora, quindi arriviamo al campo base solo verso le cinque, cioè a poco più di un’ora dal calar del sole. L’ascesa è previsto duri tre ore, quindi metà sarà al buio pesto (ma abbiamo le torce elettriche).

Arriva anche il nostro cammello da soma con il suo padrone, per portare cibo, acqua, vestiario e sacchi a pelo per la notte, carichiamo e partiamo alla volta della cima! Il tempo è quasi fresco e l’ascesa di circa trecento metri in otto chilometri non dovrebbe essere complicata.

L’ambiente è davvero strano, la lava è caduta ovunque, creando disegni singolari e di difficie riproduzione, passiamo dalla sabbia ai tamerici, dalla lava ai piccoli canyon in cui i magri buoi possono trovare qualcosa di cui nutrirsi, lo sguardo di tutto ciò ci prende a tal punto che non ci accorgiamo che stiamo salendo da un pezzo.

Ma arriva il buio...

Bhe, accendiamo le torce da testa e continuiamo.

Ma sia gli scout che la guida, che i nostri poliziotti che il cammelliere, nessuno di loro ha una luce con se! Fintanto che non è ancora notte fonda va bene ma nel frattempo anche il paesaggio cambia con l’avvicinarsi alla cima e perdiamo più volte sia la traccia che il cammello (che sia l’unico a sapere dove va?), perdendo tempo nell’attesa, cercando di ritrovare la via giusta e sicura per la vetta che, complice il buio, notiamo stagliarsi proprio dinnanzi a noi, rossa di fuoco e fumante di zolfo. Incrociamo addirittura un gruppo di turisti, tra cui una anziana signora con bastone e baldo attendente, che ridiscendono dopo aver passato un paio di giorni sul vulcano... la loro group leader, una ragazza di Addis, sorridente e proprio carina, ci dice che siamo sulla retta via, e che mancano meno di mezz’ora alla cima. Li salutiamo e proseguiamo fino a... fino a che... BOOOM!!! Mattia non casca in un buco!

Rewind: li salutiamo e proseguiamo ma la guida si ri-perde, Mattia gli da la sua torcia, aspettiamo una decina di minuti ma non lo vediamo tornare indietro.

Preso dallo scazzo per la situazione, per il fatto che sono ben sei anni che vuole arrivare al vulcano ma ciccia, gli va sempre buca (magari era un segnale?), si spazientisce e decide che tanto è appena sopra di noi, che la via giusta è ovunque, e non curante del buio e delle nostre improperie a riguardo si incammina. Lo seguo pochi passi dietro ma la mia luce non gli è di alcun supporto, Germano resta più sotto con i poliziotti ed uno degli scout in attesa del figliol prodigo. Grido a Mattia di aspettare almeno che lo raggiungo, lui si gira a sinistra, fa un passo e lo sento urlare... Corro su, lo prendo per un braccio e lo aiuto a tirarsi fuori, il dolore è forte e lui è tinta lenzuolo. Punto la torcia alla gamba e subito mi prende, da una parte la paura per lui, dall’altra un’incazzatura degna dell’aver sbagliato l’ultimo dei sei numeri del superenalotto!!!

Salgono anche gli altri e finanche la nostra guida che si era ritrovata da sola, e che nel vederlo comincia a ridere...

La situazione non è bella, si è procurato un taglio profondo un paio di centimerti e lungo almeno una decina, nell’interno coscia, la carne è al vivo. Prendiamo l’acqua per lavare la ferita mentre volano le meglio parole! Cerco di convincerlo che sarebbe meglio scendere ma, lui implora di salire ler sconfiggere la paura e la sfortuna, non può e non vuole arretrare di li senza prima aver visto sto maledetto vulcano. Glie ne dico di tutti i colori, perfino Germano, molto più diplomaticamente di me prova a ricondurlo alla ragione ma niente da fare ed alla fine, con una legatura stretta fatta con la maglietta lurida, e l’aiuto nostro, si continua a salire... Ovviamente eravamo fuori strada e i venti minuti mancanti diventano più di un’ora anche per via della camminata strascicata di Mattia però, eccoci finalmente! ce l’abbiamo fatta! Siamo sull’Erta Ale!

Mattia nel frattempo non migliora e la ferita spurga che è un piacere...

Meno male che non si è rotto un femore o peggio non si è tranciato la femorale, in entrambi i casi sarebbe stata la fine... perciò nonostante tutto quanto accaduto e tutto quanto detto sull’onda dell’incidente “da minkione” siamo felici ed elettrizzati per essere li.

Dalle scarne capanne, erette in cima per i turisti, piene di immondizia (che le guide portano giù solo dietro pagamento, grazie al cammello), bisogna scendere di un livello per poi camminare fino all’orlo del createre. Scendiamo lungo la parete grazie ad alcuni incerti scalini per poi copiare fedelmente i passi della guida, giusto per essere sicuri che null’altro possa accadere ed ecco che, vicino ad un cumulo di pietre, composto a mo’ di sedia, c’è il cratere. É del diametro di un centinaio di metri, con la lava fluida, rossa e fumante, solo una ventina di metri sotto di noi! É incredibile, uno spettacolo ipnotico e terrifico compare ai nostri occhi, tanto che è difficile distoglerne lo sguardo!

Le fotocamere scattano a raffica per suggellare il momento, senza curarci che siamo al buio e quindi se abbiamo fortuna una foto su cento sarà a posto, ma non importa, la vista di quella strana e viva creatura della Terra coinvonge al cento per cento tutti i nostri sensi... passa un’ora, un’altra, la lava ci regala momenti speciali, sbuffi, esplosioni di luce, fratture che improvvisamente si aprono e mostrano il bianco dei tremila gradi, quasi si vede fin giù, nel centro della Terra!

Vorremmo dormire li ma non è permesso (sulla carta almeno) fermarsi sull’orlo del cratere per la notte. A malincuore torniamo su per una rapida cena e una seconda, più tranquilla, rivista alla ferita di Mattia. Di più non possiamo fare perchè ovviamente il materiale medico è rimasto giù, al campo base, insieme al kit da sutura (quando si dice il caso!) che peraltro nessuno di noi saprebbe usare... Un bel lavaggio con acqua di bottiglia, burro di cacao steso sui lembi della ferita, fazzoletti umidificati per neonati a coprirla e la solita fetida maglietta a legare il tutto. Mi riprometto di rompere le balle a Paolo e Elena, una volta a casa, affinchè mi erudiscano sul pronto intervento in simili situazioni.

A cena finita, tuttavia ci riviene la voglia di dormire affianco a lui, il vulcano. Riusciamo a convincere il nostro poliziotto che, col kalashnikov in una mano e il sacco di Mattia nell’altra (gli altri, cammello incluso già dormono) ci riaccompagna giù per la parete e poi fino al cratere. Si copre col sacco a pelo, noi gonfiamo i materassini e ci risediamo sull’orlo del cratere per estasiati come poche ore prima. Poi, mentre Mattia è ancora li seduto a contemplare la lava e il fumo, decido che è meglio se mi corico per dormire qualche ora.

Però, dentro di me, dopo un po’ accade una cosa che mai avevo provato prima...

Mentre dormo, perchè sto dormendo davvero, sento la roccia scricchiolare sotto la mia schiena, il fumo solfureo aumenta ed è sempre più acre, il vulcano respira profondamente... e in me cresce la paura.

Di colpo apro gli occhi, guardo l’orologio, è passata nemmeno un’ora!

Cerco Mattia nel buio e gli dico che non resisterò li un minuto di più, io torno su, alle capanne. Ok, dice, andiamo insieme fino alla parete poi torno quì, dove dorme la guida, perchè io resterò qui fino al sorgere del sole. Pile accese e ci incamminiamo tanto, lo sappiamo, saranno nemmeno cento metri, delineati dagli ometti di rocce, lasciati proprio per l’evenienza dalle precedenti ascese. Evidentemente ne saltiamo uno. Non so perchè guardo i miei piedi e sotto vedo, tra le crepe della lava indurita, il rosso di quella liquida! Il fumo che sale scaldandomi le gambe, l’odore dello zolfo e BOOOMM! Di nuovo la paura sale fino al cervello... blocco Mattia che non si era accorto di ciò e torniamo non senza fatica fino ai nostri materassi e alla guida. Lo svegliamo (in effetti prima non lo volevamo tormentare, tanto, dove si sale, è solo li, davanti a noi...) e ci mostra un sorriso, come se sapesse in cuor suo che non era posto per noi, che era giusto starvi un po’ e che poi, bisognava stare lontani dal “Respiro del Dragone”!

Germano che nel frattempo si era appisolato in una delle capanne, si sveglia per vedere chi era che faceva casino, noi ovviamente, e poi torna a dormire.

Ci accucciamo sotto le stelle, Mattia russa e io non dormo... lo sento ancora quel respiro!

11/12/09

Erta Ale Volcain...

É l’alba, torniamo giù al cratere che, ahinoi, dorme, d’altronde, all’unisono ci diciamo, è logico! Lucifero vive di notte, mica di giorno! Ed in effetti non si vede che una coltre di lava grigia, nessun movimento, nessuno sbuffo, nessun suono o quasi... game over ragazzi!

Aspettiamo l’alba poi scendiamo, poco più di due ore e mezza, Mattia intanto comincia a soffrire la situazione per la mancanza dell’adrenalina che lo tenne vigile la sera prima, e quanado arriviamo ai mezzi è debole e assetato, si siede e aspetta che troviamo il kit per la medicazione.

Dopo una buona bevuta, qualche minuto all’ombra del VM, e l’aver raccontato agli increduli Habum e soci dell’accaduto, medichiamo questa volta con quanto abbiamo con noi (garze, mercurocromo, bende elastiche, etc.) e torniamo indietro per quei soliti, orribili, quindici chilometri di pista.

Dimenticavo una cosa... su quel tratto di pista, all’andata ma anche al ritorno, tanto non c’è alternativa, passiamo proprio sopra il punto dove, in ottobre scorso (o forse aprile, dipende dalle teorie e da chi le racconta) gli Afar fecero saltare su una mina anticarro un Land Cruiser con tanto di turisti e guide e scout, solo per una non ben nota rimostranza contro il governo centrale.

Proprio il nostro scout, una volta fermi li, e mimando l’accaduto, ci dice che vide i brandelli dell’auto (alcuni sono ancora li) e delle persone, i loro corpi ridotti al nulla, sventrati, smembrati... non riesco ovviamente a sapere da lui se era li per soccorrerli o piuttosto perchè aveva aspettato il loro passaggio... Poco male, almeno questa volta non è successo nulla.

In effetti, in Dancalia, non ostante tutti vadano pagati, poco o tanto che sia la somma, non si ha la sensazione di essere al sicuro... pare sempre che manchi qualche tassello nel mosaico, qualche maglia nella catena, c’è sempre qualcosa di poco chiaro o mal compreso... non è proprio un posto da tutti e per tutti, la voglia di tornarvi in cuor nostro c’è ma, alla fine dei conti, chissà se ci torneremo.

Torniamo nei pressi del crossroad, lasciamo gli amici Afar e proseguiamo in direzione Sud, per Afrera, fino ad incrociare la nuova strada che stanno costruendo i cinesi (oramai se non sei nero, o sei “farangi” o sei cinese, e spesso per loro sei cinese!) da dove voltare a Nord, verso Ihrepti.

Abbiamo deciso che, vista la fortuna avuta una volta, nel passare la piana tra Dallol e il vulcano, senza acqua e senza troppi problemi, non torneremo per la stessa strada bensì, faremo un giro completo, tornando a Mekelle per un’altra parte. Ma Germano e il suo VM sono sempre senza freni o quasi, quindi insieme conveniamo sia meglio per lui che lo portiamo fino al villaggio di Afrera, trentacinque chilometri a Sud da quando troveremo la nuova strada.

E così è. Dopo un’ora o poco più siamo nella via centrale di Afrera, altro posto a bordo dell’omonimo lago, con estrazione del sale più industrializzata che a Dallol (mi viene quasi il dubbio che il Salt Market sia oramai un’attrazione per turisti), un accesso stradale facile e in buono stato da Sud, tanto che ci sono parecchi negozi, bar, loschi alberghetti, camion e auto, donne, poliziotti, autisti, minatori... Ci fermiamo al posto di polizia (inutile ma lo facciamo lo stesso) per dire che Germano era con noi e che ora proseguerà a Sud, da solo, verso l’asfalto che porta da Addis in Gibuti, poi sosta pranzo al bar e via, a malincuore ci salutiamo, lui va a Sud, noi a Nord Est... tanto l’idea è di rivederci a Lalibela tra tre giorni, già, quella era l’idea... ma si sa, il viaggio è sempre variegato, volubile, differente di giorno in giorno nonstante le programmazioni e i migliori intenti... e quindi non ci soprenderemo se non ci si rivedrà.

La pista preparata per l’asfalto scorre veloce, recuperiamo il terreno perduto e poi pieghiamo a Ovest per inoltrarci tra le montagne. Passano le ore ed i chilometri, tanto nessuno mai aveva raggiunto Ihrepti da Sud, e quando ormai si fa notte, et voilà, siamo nel centro du un paesino Afar di montagna... i bar, le enormi parabole TV, tutti sono armati, le donne e gli uomini sfoggiano acconciature particolarissime, molto ricche e ben confezionate, anche l’abbigliamento è spesso tradizionale... Insomma, un posto pieno di vita e che merita una sosta, una bevuta, quattro passi tra la gente che si rivela tutto sommato cordiale.

Ma è buio ovunque, solo i bar hanno una luce oltre la TV accesa e sintonizzata sull’ultimo film di Bruce Willys, pertanto nessuna foto da portare agli amici.

C’è anche la Clinica ospedaliera, o meglio, il pronto intervento, e visto che dormiremo proprio sotto la tettoia dell’ospedale e della scuola (che sono un tutt’uno), e visto che l’ora è quella giusta, arriva l’infermiere. Apre il lucchetto alla porta, accende la luce, ed io, Habtum e Mattia entriamo sperando di farlo medicare da qualcuno che sa quello che fa, o che almeno lo sa più di noi tutti...

Il ragazzotto non si scompone, dice che ne vede a decine di cose simili, prende e va nel magazzino da dove torna con una vaschetta di inox contenente ittiolo, un’altra con del cotone (colto dalla pianta, non quello che abbiamo noi), due forbici e comincia a sbendargli la gamba per poi lavare e disinfettare tutta la ferita. Mattia è allo svenimento per il dolore, e solo qualche sorso d’acqua lo tien su... però il lavoro viene fatto bene, a regola d’arte vista la situazione e infine va a prendere un blister di compresse antibiotiche, ne rompe tre o quattro e la polverina rosa che ne esce viene versata sulla ferita, proprio dentro, a ricoprire la carne arrossata e sanguinante come i cowboys facevano con la polvere da sparo (ma senza dargli poi fuoco!!!) nei migliori films di Hollywood.

Si va a dormire, per terra, sui materassini bucati dalla lava del vulcano (chissà perchè me li porterò a casa?). Al mattino tutti ridono perchè dicono e mimano che Habtum russasse cume un vapore... In realta ero io a russare (dice Mattia, buono pure lui... che non ha chiuso occhio per il male) solo che non si osavano di prendermi per i fondelli...

12/12/09

Ihrepti...

É l’alba, quindi quasi buio, e si riparte... niente foto la sera prima, niente neanche ora.

Vabbhè, questo viaggio è così, inutile ostinarsi...

Ancora montagne, sali scendi non stratosferici ma menomale che non c’è Germano e il suo VM altrimenti erano dolori. Arriva mezzogiorno, il paesaggio nel mentre è cambiato e Mekelle è a meno di trenta chilometri, e con lui, l’Ayder Hospital ed anche l’albergo che lasciammo cinque giorni fa.

Ovviamente arrivati all’albergo dobbiamo regolare i conti con la guida e i due poliziotti, pagandogli, oltre la giornata, anche il biglietto del pulman che li avrebbe riportati a casa. Anche la macchina va regolata e saldata, facciamo il conto di quanto gasolio gli è rimasto e alla fine gli diamo i 300 birr mancanti.

Entriamo in albergo e... “No mister, you’ve not reserved any room... only told me you’ll be back after five days!” Ci siamo, non abbiamo la camera perchè il tipo fa finta di essere furbo ma è scemo.

In realta lasciammo anche i bagagli in eccesso proprio li, in nostra attesa ma non c’è verso a meno che... a meno che non prediamo una souite! Ecco l’escamotage, tanto è libera, anzi, ce ne sono ben due libere, una ci basta e costa come due camere normali.

OK, crepi l’avarizia, vada per la souite!

La vediamo, bella è bella, con tanto di salotto e letto king size... un vero lusso! E quì esce l’ennesimo problema: due uomini non possono dormire insieme! Come? E perchè? Perchè non è concesso dalle regole locali quindi, o due souite o nulla da fare. Rieccoci in strada alla ricerca dell’albergo mentre Mattia deve andare in ospedale a farsi sistemare la gamba... meno male che l’auto non l’abbiamo ancora abbandonata al suo destino, Issak deve raggiungerci all’ospedale e con lui certamente troveremo la soluzione.

Nel frattempo chiamo l’ex direttore medico, ora impegnato non più all’Ayder ma nella sua clinica privata, combino di trovarci in ospedale e partiamo.

Arrivati li, con lui ci presentiamo all’emergency care, arrivano anche l’infermiere professionista e un paio di infermierine, tutte attempate per l’occasione. Comincia di nuovo il calvario per la gamba di Mattia.

Col bisturi riaprono la ferita, la scorticano per bene dei resti della polverina rosa oramai secca e raggrumata col sangue, a quel punto lo lascio in buone meni e parto per trovare da dormire, su consiglio del’ex direttore, all’Ahrba Castle Hotel, proprio in cima alla collina soprastante Mekelle.

Nessun problema di sorta, ne per la souite per due uomini, ne per le due camere con bagno in comune, scegliamo quest’ultima soluzione principalmente per comodità di russate.

Torno all’Ayder a recuperare Mattia che nel frattempo è stato registrato ( a nome mio!?), medicato e fasciato però gli consigliano di tornare dopo un paio di giorni per farsi cucire definitivamente visto che ora gli hanno dato solo due punti, uno in cima e l’altro in fondo alla ferita. Non se ne parla, lui non si fida, richiamo il direttore che richiama l’infermiere che ha fatto il lavoro... poi mi dice che a suo avviso va bene così, che potrà anche camminare senza pericolo di far danni. Sento Paolo in Italia e anche la sua opinione è la stessa quindi, si va in hotel poi a cena e poi l’indomani si prosegue per Lalibela.

Espletiamo le ultime formalità, tra cui comperare le bende e i medicinali usati per Mattia, alla farmacia dell’Ayder, consegnandoli all’equipe che si era presa cura della gamba malconcia, come, noi portiamo beni di estrema necessità e valore proprio per curare i malati e loro, in cambio, ci chiedono di parare 20 birr di bendaggi e flebo? Bella storia! Anche quì, L’Africa riesce a stupire non ostante uno parta con i migliori intenti.

Nel mentre, dobbiamo ancora trovare un’altra auto con un altro autista. Eravamo d’accordo, prima di scendere in Dancalia, di vederci con un altro amico di Issak proprio oggi, prima di cena per i dettagli del caso, e così è.

L’auto sarà un Land Cruiser, l’autista conosce bene la pista che vogliamo fare ed anche la strada da Lalibela fino a Bahir Dar, sul Lago Tana, il prezzo ci pare onesto, perciò diamo il via a questa seconda metà del nostro viaggio.

Però, a scanso di equivoci, e certi che le piste son belle si ma lente, che le ore che dicono servano sono sempre sbagliate, che magari si sbaglia strada etc., decidiamo che la mattina dopo, prima di fare il pieno e partire, andremo all’ufficio dell’Ethiopian Airlines a prendere i biglietti aerei per la tratta da Bahir Dar a Addis, che non si sa mai.

E oggi, devo dire, facemmo bene anzi, da qanto seguirà sarà facile capire che, a parte la Dancalia e la regione dell’Omo River, posti dove senz’auto non si può fare nulla, il resto delle mete “classiche” che l’Etiopia offre, è più facile visitarle tramite una serie di passaggi aerei ben combinati tra loro, visto che sono anche puntuali, più l’uso di taxi in loco, per percorrere distanze brevi, certi che gli autisti sapranno dove andare.

13/12/09

Mekelle...

Una buona e ricca colazione all’hotel, dove chiediamo al cameriere un po di sale per le abluzioni alla ferita e lui con fare distinto, in un buon vecchi italiano, comincia a raccontarci di com’era un tempo e di com non va bene oggi, poi, ci porta il sale, ci saluta e va in cucina. É strano constatare che le uniche persone (a parte Issak) con cui si può parlare liberamente, senza doppi fini o fraintendimenti sono, è proprio il caso di sottolinearlo, gli anziani che vissero il periodo coloniale, siano essi etiopi o eritrei. E sono anche dignitosi, con un bel portamente ma, tristi. Di una tristezza che ti entra dentro dopo poche frasi. Strano ma è così.

Siamo nuovamente in ballo.

Il Land Cruiser è sì un LC ma non di quelli moderni, bensì un è un vecchi 60 balestrato (chi va per il Sahara sa di cosa sto parlando), a quattro marce e senza aria condizionata (sana idea quella dei biglietti aerei, credetemi!) ma la pista è unica, inequivocabile, quindi siamo a cavallo.

Il panorama è davvero bello, le valli e le montagne si susseguono in un turbinio di colori, pareti coltivate, ruscelli ora in secca e villaggi piccoli ma ben costruiti sulle cime, la pista inoltre scorre niente male e la media che riusciamo a fare pare proprio dar ragione al fatto che, secondo l’autista ed i locali in genere, in sei, sette ore al massimo saremo a destinazione... Ma manchiamo un bivio (l’unico) e ce ne accorgiamo solo dopo trenta chilometri quando decido che la nostra traccia è oramai troppo scostata dal previsto (ed anche la mappa della zona caricata sul GPS ci mette del suo perchè non è affatto attendibile! Wouther!?!?!) e fermo il mezzo. Attendiamo l’arrivo di qualcuno che sappia dov’è e di conseguenza sappia indicarci dove dobbiamo andare.

Così è, arriva un camion carico di bevande e veniamo a sapere che la strada sotto le nostre ruote non porta più a Lalibela, bensi ad un’altro incrocio quaranta chilometri più a valle che poi a sua volta porta all’asfalto che da Mekelle va a Addis...

Ecco che, in un solo istante, siamo praticamente fuori tempo e col gasolio contato. Torniamo indietro, prendiamo il maledetto bivio e richiediamo man mano se siamo sulla via giusta, risultato, arriviamo a Lalibela quasi a secco, ma che almeno non è già buio, sono le cinque del pomeriggio e ci abbiamo messo quasi dieci ore.

L’Hotel Seven Olives è carino, semplice ma decoroso, le camere sono pulite, solo la corrente elettrica viene gestita a singhiozzo, ma non è un problema, basta ci sia acqua calda e una buona cena ad attenderci.

Dopo cena è il tempo della medicazione post-doccia, l’auto è li, ma è chiusa e l’autista non si vede... lo cerco e lo trovo che dorme non molto distante da noi in una pensioncina per locali (o per viaggiatori duri e puri) e così, nelal caccia, riesco a farmi un’idea dell’ambiente di Lalibela, villaggio/città dove oltre alle famose chiese nella roccia vi sono un’infinità di locali con donne e uomini, musica a palla, birra e alcool, insomma, è tutto sommato un bel casino.

14/12/09

Lalibela...

La visita delle chiese ci porterà via tutta la mattinata, Mattia è in forma o quasi ed è comunque intenzionato e contento di fare il percorso con me.

Si tratta di undici chiese scavate in profondità, dall’alto, nella montagna a ridosso del villaggio, divise in due aglomerati distinti, uno di quattro chiese l’altro di sei (in realtà sono cinque ma una è sdoppiata, dedicata a due Santi diversi) più un’unica chiesa, quella di San Giorgio, scavata con la pianta a forma di croce, una delle meraviglie del mondo antico.

La guida assoldata si rivela capace e ci racconta per filo e per segno quanto ogni aneddoto storico e di leggenda, in realtà, si può leggere tutto quanto sulla Lonely Planet (chissà se l’ha imparato leggendola) ma ci va meglio sentir qualcuno che ci racconta a voce, scambiando qualche parola con lui, piuttosto che leggere una guida scritta quindi, siamo contenti.

Le peculiarità di queste costruzioni passa per una quantità esagerata di simboli, ritrovabili sulle finestre, negli intarsi delle porte, nelle splendide icone che raffigurano via via i Santi, il Re Lalibela (che significa “mangiatore di miele” dato che la leggenda riferisce che quando nacque le api tutte gli portarono in bocca il loro nettare per farlo crescere), Gesù Cristo, San Giorgio e il povero dragone, etc.

Detta così, potrebbero sembrare solo dei monumenti del passato (la leggenda dice ancora che ci vollero meno di ventiquattro giorni per la loro costruzione), non più in auge e oramai mantenuti e dedicati alle visite turistiche invece, già dal mattino presto la gente del posto si accalca qua e la in attesa di proferire con il prelato, per avere consigli, per farsi passare sulle parti del corpo malate o doloranti le croci copte, porta lui delle offerte, prega riparata dal buio, dietro i pilastri o nei chiostri... A seconda del giorno le preghiere sono musicate, cantate, urlate. È religione vera, sentita e condivisa da tutti, a noi non resta che infiltrarci sperando di poter rubare qualche buono scatto. L’atmosfera è pregna di misticismo. Meriterebbe, insieme ai monasteri disseminati sul territorio circostante, qualche altro giorno ma, il tempo per noi è sempre tiranno.

15/12/09

Lalibela...

Non c’è gasolio al distributore.

É ora di partire, cerchiamo qualcuno che venda carburante in nero (ovviamente c’è, tutti si servono da lui), ma ci dice che non ne ha per noi “Farangi”, a parte forse una ventina di litri. Bussiamo con le nocche delle mani ai molti fusti stipati nell’interno del fatiscente e unto magazzino cercando qualche rimasuglio così che lui si convince di non potere farla franca impunemente quindi, ecco che salta fuori tutto il gasolio che ci serve, al costo di poco superiore a quello teorico di vendita. Facciamo il pieno, salutiamo e siamo nuovamente sulla strada, questa volta con meta Bahir Dar e le coste del Lago Tana.

Il primo tratto del percorso già ci fa capire che, se da Mekelle a Lalibela uno lo consiglierebbe anche al migliore amico, perchè c’è da vedere, da sentire, da fotografare... da qui in poi cambia tutto. Un centinaio di chilometri ci separano dalla direttrice commerciale che da Bahir va verso Est e gli italiani insieme con gli etiopi, stanno facendo un gran lavoro per renderla asfaltabile e quindi migliorarne il transito delle merci però, ora non è così. I lavori sono in corso e di fatto si serpeggia ora a sinistra, ora a destra del tracciato ufficiale, nel pieno della polvere, delle buche, schivando ora animali, ora persone. Un vero delirio!

Apro una piccola parentesi circa il modo etiope di muoversi delle persone:

OK, tra gli altopiani non ci sono che villaggi, molti senza luce, con poca acqua e la gente vive miserrimamente con poche cose quindi, non ha la macchina e si sposta a piedi. Però, però... Le strade sono tirate benino e il traffico di mezzi non è cominciato l’altro ieri! Di minibus, camion, qualche automobile piena zeppa di passeggeri, se ne vedono passare ad ogni ora del giorno e spesso anche di notte.

Quindi, mi chiedo, perchè mai, camminano in mezzo alla strada e, quando incrociano un veicolo non si muovono per evitarlo? Perchè quando sono sul ciglio della strada e parlano con l’amico, arriviamo noi con il LC (o un camion, non fa differenza) e loro decidono di attraversare buttandosi sulla pista, facendo una faccia terrifica quando si accorgono che ci siamo anche noi?

Ci ho pensato molto durante i vari episodi e mi sono convinto che hanno un comportamento simile, se non fotocopia, di quello che hanno gli asini (e non me ne vogliano i simpatici animali!). Un asino sta li, fermo, ti guarda e non dice nulla. Loro, fanno semplicemente lo stesso tanto che il nostro autista che arriva dal traffico di Mekelle, gli suona, frena davanti ai loro piedi, scende e li copre di improperie... Niente da fare, bisogna schivarli (o almeno provarci) o fermarsi e quasi spostarli di peso, tanto che nemmeno lui riesce a capacitarsi.

Chiusa parentesi.

Passano le ore e finalmente scendiamo fino alla quota di circa 1900 slm, raggiungendo l’asfalto e solo una sennsntina di chilometri ci separano dalle coste del lago. Lo raggigungiamo verso le cinque. Tutto quaggiù si raggiunge alle cinque, che sia a cinquanta o cinquecento chilometri, la legge della strada evidentemente parla chiaro! Ma quì il sole va giù un poco dopo e questo ci permette, dopo aver preso le camere, di fare “un balade sur le rivage”.

Bahir Dar è una città viva e caotica, si vedono solo pochi turisti in giro e almeno il novanta per cento di essi alloggia al nostro stesso resort. L’Hotel Ghion è un posto semplice ed economico ma vanta una posizione splendida, direttamente sulla riva, affianco al molo della Marina. Dicevo, ci siamo fatti un giro prima di cena e notiamo che ci sono molti barucci o ristorantini appollaiati sulla roccia tranne uno, direttamente sul sul lago e che ha un pontone di barche che lo congiunge a terra. Quì si beve e si mangia bene ma, si paga per passare il ponte ed anche per portarsi appresso la fotocamera...

Ci andiamo comunque, ci sediamo a contemplare lo specchio d’acqua, farci una birra e scattare un paio di fotoricordo poi, prendo il cellulare e mando un SMS a Franca che recita: “ciao, siamo a Bahir Dar, sul molo a berci una St. Giorge, e sembra di essere al lago di Avigliana.”

Però il Lago Tana non è proprio quello di Avigliana (TO) e non solo per via delle dimensioni. Ha un suo fascino particolare, quì si combattè una delle ultime battaglie tra i MAS della Regia Marina ed i Caccia inglesi di base sul Mar Rosso, vediamo ancora attraccato uno dei MAS oramai brutalmente modificato per l’uso della capitaneria locale. La gente qui sa dell’accaduto e ne parla con conoscenza e a volte con entusiasmo (chissà poi perchè?). Ci sono inoltre un sacco di isole e ciascuna nasconde un monastero, non ci resta che noleggiare una barca e farci un giro. Combiniamo per il mattino seguente perchè al mattino l’acqua è come l’olio, mentre al pomeriggio si agita come un mare... nonostante sia una superfice enorme ma profonda solo una quindicina di metri.

16/12/09

Bahir Dar...

Sono le otto e mezza del mattino, l’aria è limpida e il sole comincia a riscaldare l’ambiente. Siamo diretti, anche per mancanza di tempo, alla volta di tre o quattro monasteri siti sulle isole più vicine.

Quì la religione copta è un tantino differente sia nelle manifestazioni architettoniche che nei costumi... alcuni monasteri infatti sono interdetti alle donne, altri sono adibiti a museo e quindi non sono più in uso. I monaci sono sia uomini che donne, a seconda del luogo di culto, e le forme sono differenti sia da Lalibela che dale chiese del Tigrai: si tratta di costruzioni rotonde, con tetto in lamiera e paglia, a volte dipinto, con le colonne intorno e grandi porte di legno realizzate in un sol pezzo (ci dovevano essere piante enormi da queste parti...) dentro sono scarni e bui, le icone sono disegnate sommariamente oppure sono di nuova e sgargiante fattura, disegnate su tela poi attaccata alle pareti. Ma la visita di qeste isole, dove si cammina dentro il folto della vegetazione, incontrando i monaci, guardando l’orizzonte lattiginoso del lago, è piacevolmente tranquilla. Visitiamo il museo in uno dei siti e ci vengono mostrate croci e corone reali vecchie di secoli, letti e bauli in pelle di bufalo finemente intarsiati. Lungo la navigazione incrociamo prima una delle barche in papiro, tipiche imbarcazioni che da secoli solcano questo “mare” dolce, con sopra due bellimbusti che vanno, a colpi di remi, chissà dove a caricare legna, poi un paio più piccole, con ciascuna un pescatore ed il frutto della nottata. Qui si pescano il cefalo, la telapia ed il pescegatto; quest’ultimo non viene mangiato dai copti, almeno questo è quanto ci viene detto, senza aggiunta di spiegazioni.

In lontananza, si vede un vapore.

Chiedo al nostro amico timoniere se sa di cosa si tratta e lui, prontamente, disegna sul palmo della mano una sorta di aquila con un’ascia! Colto dalla curiosità rifaccio il disegno sulla mia mano, riportando meglio il simbolo della fascina e dell’ascia con ai fianchi due rami di lauro.

OK dice, è quello, è la barca degli italiani! Si tratta della barca del Duce, un tempo ancorata a Bahir Dar presso il molo privato, e che ormai viene impiegata mestamente per il trasporto di beni commerciali, persone e legna da ardere... chissà in che stato è ridotta, chissà se il comandante ricorda cosa era e cosa successe un tempo... ma, ahimè, è troppo lontana per essere raggiunta e ce la vediamo sfilare all’orizzonte, in direzione Nord. Peccato!

Torniamo a riva per l’ora di pranzo, ci mangiamo un sandwich per poi prendere l’auto e andare su per trenta chilometri, attraverso i campi coltivati, fino alle Cascate del Nilo Azzurro. Nel frattempo una turista americana e una coppia di australiani stanno cercando un mezzo per andare a Lalibela. Il proprietario del resort ci chiede quando lasceremo libera l’auto, che magari si combina con loro in modo che tutti ci guadagnino qualcosina. Gli dico che la sera stessa, dopo cena, abbiamo il volo per Addis, e che quindi l’auto sarà libera dopo la visita delle cascate, se lui si preoccuperà di portarci al vicino aeroporto.

Inizia una trattativa tra noi e loro, convinti che l’accordo sia facile da raggiungere ma non è proprio così... Loro non vogliono spendere, noi vorremmo risparmiare almeno il carburante che dovremmo pagare all’autista per il rientro, compreso il pieno a Mekelle, stiamo discutendo su 1200 birr, poco più di 60 euro, mentre l’auto era già pagata da noi anche per il rientro da vuota, e noui gli offrivamo questa non facile opportunità. Troviamo l’accordo, loro pagheranno il carburante necessario, complice un buon bicchiere di vino etiope, aperto dal tizio australiano, e partiamo per le cascate.

Per chi ha visto Victoria Falls, parlando di Africa o, qualsivoglia altra cascata di grido... ecco, qui non c’è nulla da vedere se non immaginarsi come dovevano essere un secolo o due fa. Però merita la pena a prescindere da tutto perchè il posto è splendido, ed anche se la stagione non è la più adatta, e la diga preleva quasi tutta l’acqua del fiume per la produzione di energia, la cascata c’è, ed anche il fascino non manca, solo a pensare che i primi esploratori ci misero giorni e giorni per traversare la zona da tanta violenza era presente, scontrandosi con la natura e le tribù, portando doni e ricevendo frecciate... ecco, ci sono stato con piacere.

Torniamo al resort per la doccia e preparare i bagagli quando, l’autista mi prende da parte e dice che non è molto convinto di tornare a Lalibela, teme per l’auto e per il suo portafogli. Siamo di nuovo da capo, mai che una parola sia mantenuta, non dico per giorni o settimane ma, nemmeno per poche ore (questo è un atteggiamento comune da queste parti, e lo si deve tenere in conto prima di partire).

Si ricomincia a trattare, e alla fine veniamo a capire che lui, l’autista, di cui bisogna fidarsi come con tutti in Etiopia, beh, lui non si fida nè di noi nè del propietario nè dei tre turisti che dovrebbe portare su... e vorrebbe essere pagato di tutto, ora, in anticipo.

Bella storia! Io (loro in realtà) ti do i soldi e tu puoi sparire, ma mi devo fidare del contrario, mentre tu non sei tranquillo che io l’indomani parta con te, pagandoti strada facendo! Ovviamente tutto si risolverà con qualche stretta di mano, una pacca sulle (sue) spalle per tranquillizzarlo, noi ci rimettiamo metà del “nostro guadagno” altrimenti non se ne fa nulla (si attaccano anche a pochi spiccioli i viaggiatori d’oltre oceani, non ostante sfoggino vino costoso a tavola, gioielli e abbigliamento di marca... non li capirò mai, anzi, a dirla tutta, forse era meglio non combinare niente!). Chissà se e come gli è andata?

É ora di partire per Addis, la serata si chiude con quaranta minuti di volo, venti di taxi e una semplice ma pulita camera all’hotel più vecchio d’Etiopia, il Taitu Hotel, costruzione colonica fatta erigere a fine ottocento dalla moglie di Menghistu, proprio in downtown. Sembra un po’ di essere al Baron Hotel di Aleppo, il che già è tutto un film. Tutto sommato per i dodici euro che ci chiedono si sta bene, si è vicino a tutto ed il ristorante non è niente male. Insomma, spendere una fortuna per dormire a Addis, che è si una capitale ma, non merita poi permanenze lunghe da giustificare comodità europee, non ne vale la pena.

In cuor nostro ringraziamo George, il simpatico americano che vive a Roma ed esporta prodotti bio in USA, che incontrammo a Lalibela... fu lui a indicarci questa soluzione. L’alternativa per noi era il Dimitri Hotel, quattro stelle e 80USD a camera.

17/12/09

Addis Abeba...

Almeno due cose meritano di essere viste: il Museo Nazionale, dove sono custoditi, oltre alla sezione preistorica più didattica, i resti di Lucy, la prima (almeno per ora) primate a camminare eretta, la nostra qatris-tris-bis avola, alta meno di un metro e mezzo e con l’aspetto sicuramente non da copertina... e invece, giustamente, è stata ritratta sulle migliori riviste scentifiche ed anche gli scolari etiopi fanno la fila con i loro insegnanti per vederla.

Ci sono anche una serie di splendide foto in B/N sulla vita di uno dei figli di Menelik, una mostra itinerante in onore dei cent’anni dalla realizzazione, a cura e redatta da un italiano.

Il secondo è il Museo di Etnologia, sito nella residenza di Haile Selassie oggi adibita ad università, e che in origine era il “Palazzo Graziani”, costruito in toto da noi italiani durante il breve periodo di occupazione. Questo museo è davvero bello, ben illustrato, arredato e sistemato dalle università italiane grazie in parte a lasciti privati... ci si possono vedere testimonianze ed abitudini di vita nei secoli, di tutte le varie etnie, i riti magici e propiziatori, l’evoluzione della tecnologia agricola (che non si è evoluta affatto, visto che ancora oggi gli aratri hanno il vomero in legno ed anche i badili sono integralmente in legno... non usano quello strano e pesante materiale che fonde e non brucia, il ferro!), strumenti musicali, monili e dipinti... passate qualche ora tra le mura, o se si capisce l’amarico, nella biblioteca, o ancora, parlando con l’attendente alla camere dell’Ex Re d’Etiopia, ne verrete certamente ripagati. Ah, se cercate un posto dove acquistare artigianato di pregio, qui dentro, al primo piano, proprio sopra il Caffè Italia, c’è un negozietto di souvenirs davvero niente male!

18/12/09

Addis Abeba... ultimo giorno di viaggio.

Alla ricerca dei souvenirs per amici e parenti.

C’è di tutto, e proveniente da tutta l’Africa limitrofa, oggettistica squisitamente keniota, scudi eritrei e sudanesi, statuine tanzaniane in ebano (alcune sono le famose Makonda) pugnali Afar e lance Bantu... la poterie di coccio, di legno e di pelle (quest’ultima è davvero pregievole), le collane e i bracciali in argento e pietre. Non c’è che l’imbarazzo dela scelta, i prezzi sono in genere bassi e la contrattazione è sempre ben accetta. Tutto si svolge in Churchill Avenue, verso il fondo, poco dopo la piazza.

Per il caffè, invece, è un’altra storia...

Tutti i bar e le caffetterie di Addis vendono caffè in tazza ed anche in sacchetti da asporto però, se cercate il famoso Sidamo, originario delle colline dell’Omo River, dal sapore forte, aromatico, ligneo... allora andate da TO.MO.CA. poco sotto “Piazza”, in Wavel Street, non ve ne pentirete! E non uscite da li senza prima aver assaggiato la loro produzione in tazza, tostata in loco, miscelata sapientemente e fatta con la vecchia Cimbali. Ordinate e pagate al proprietario alla cassa, lui vi ritornerà non lo scontrino, ma una fiches colorata a seconda della vostra comanda... la consegnate ai baristi ed aspettate il vostro turno.

Serve tempo, è vero, ma in Africa il tempo non è una misura... e buon caffè!

Ag_adrar©2009

Ringraziamenti:

a Mattia e Germano per la loro pazienza e tenacità,

a Issak per la sua volontà di confrontarsi e per voler risolvere “Farangi style” le situazioni più strane, pur con approccio “Tigrinian style”,

all’equipe medica dellAyder Hospital per l’aiuto prestato,

a Rainbow4Africa tutta,

a Paolo, Elena, Louis, e a tutti coloro che ci hanno permesso di scendere, ancora una volta, laggiù.

A Franca, mai ultima, sempre sicura di se e di me, sempre al mio fianco e che pazientemente attende di tornare, insieme, sulle rosse piste africane.