SABATO 20-3

Dopo un po' di giorni che si sta qui, si crea uno strano fenomeno spaziotemporale, per cui ogni giorno si fonde in quello che l'ha preceduto e che lo seguirà in un continuum soleggiato, polveroso e dal cielo grigio (non l'ho ancora visto una volta azzurro, dicono che devo scegliere un altro mese, per vederlo).

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9-3 martedì

E' difficile tornare alla quotidianità. Lo si capisce sin dal mattino a colazione dalla faccia scura di Gino. Dall'assenza di Somè, stremato dai giorni precedenti. Oggi nessuno se la sente di far sala. Inizia un giro visite svogliato. I pazienti ci fanno le condoglianze: è difficile trovare persone tanto sensibili. Cerco di rendermi utile come posso, ma c'è poco da fare, tocca mettere da parte le mille idee con cui sono partita e lasciare che il tempo faccia il suo corso. Vorrei dedicarmi al magazzino della sala, ma senza suor Augustine sarebbe piuttosto inutile. Così, tanto per cambiare, io e Matteo ce ne andiamo al villaggio. Ogni volta riesco ad assistere a qualche scena impagabile. Questa volta è una donna che si prende un bimbo in braccio. O meglio, sulla schiena. Qui non importa se il piccolo ha un mese o tre anni, viene comunque buttato sulla schiena, dove si attacca come un geco, mentre la madre, con un'elegantissima mossa, si passa un pagno sulle spalle, se lo fissa sul petto, quindi ne arrotola un'estremità partendo dal basso e fa altrettanto. Per quanto abbiamo analizzato a lungo la questione con le pediatre, resta un mistero come il bambino non cada nel corso della manovra e come i nodi non mollino mai. Roba che neanche il soccorso alpino. Ma comincio a pensare che qui tutto è possibile.

 

8-3 lunedì.

Oggi è  la festa della donna, anche se proprio non riesco a ricordarmene. Qui sarebbe un giorno di festa, il villaggio vi si prepara da mesi, molti han fatto cucire un vestito nuovo per l'occasione, con dei pagno a tema. Sono previste musica e danze. Ma non se ne fa nulla. Nessuno si sente di festeggiare, dopo il lutto che ha colpito l'ospedale. Almeno così ci spiega la gente del paese. Il prefetto di Nanoro è partito per i funerali di Kinda. Così anche buona parte del personale del CMA. Restiamo frère Hermann, Marco -chirurgo specializzando- ed io, a coprire le eventuali urgenze. Passo il tempo gironzolando tra i malati, a sentirmi inutile e a distribuire cattive notizie in giro per il mondo. Nel pomeriggio mi obbligo a uscire con Matteo. È difficile restare di malumore quando venti bambini ti circondano e ti trascinano al barrage cantando. Dopo un'ora di cammino sotto il sole alle tre del pomeriggio ancora mi spiegano che non è lontano...sembra di essere agli scout! L'arrivo però è un momento toccante: mi aspettavo una fonte, un fiume limpido, magari un laghetto. Invece un canale raccoglie l'acqua, resa fangosa dall'immancabile terra rossa. È questa l'acqua che bevono e trasportano con ogni cura caricandola in enormi bidoni in plastica su carretti più o meno instabili trascinati da un asinello. I bimbi l'accolgono con gioia, ci si tuffano dentro, si dissetano, giocano. Oltre il barrage il fiume, ma i più piccoli non hanno il permesso di avvicinarvisi, sembra ci siano i coccodrilli. Quando tiro fuori la macchina fotografica si scatena il putiferio. Scopro solo adesso il vero vantaggio di una digitale: appena scattata la foto si possono andare a veder le facce, ci si riconosce, si ride a crepapelle delle espressioni dell'uno o dell'altro. Ne scattiamo circa un milione prima di rientrare, poi con il calar del buio ognuno torna a casa propria e il gruppo piano piano si sfalda. Ho anche trovato un ottimo professore di morè: si chiama Joseph ed ha undici anni. Devo stare attenta, perché è piuttosto severo. Ci dissetiamo alla buvette e rientriamo per la cena. Per qualche giorno siamo orfani dei padri, riuniti in un grande Capitolo Camilliano che si tiene una volta ogni tre anni. Chissà perché mi immagino una specie di via di mezzo superkitsch tra il Nome della Rosa e i romanzi di Eimerich. Mi racconteranno al ritorno, ma la telefonata di père Henri mi fa  già sentire un po' meno sola.

 

7-3 domenica.

Kinda sta meglio, è sfebbrato e rifiuta il chinino. Così mi spingo fino alla chiesa del villaggio, per sentire la messa. Sarà da quando avevo sei anni che non ci andavo più. Questa però è speciale, tutta in morè, anche se a officiarla è don Pietro, che dopo 36 anni di Burkina di italiano ha conservato solo la passione per Claudio Abbado. Non capisco granché, ma è veramente incredibile. La chiesa è rotonda, con l'altare al centro e intorno dei gradini tipo anfiteatro. La gente, entrando, si porta una panca  su cui poi si siederà. Han tutti un vestito elegantissimo che di solito consiste in uno sgargiante completo con motivi geometrici su cui campeggiano scritte di ogni tipo: “vieni, Spirito Santo, entra nel cuore dei tuoi fedeli”, “le donne e le ragazze sono la vera forza del Burkina” “Telcel, telefoni in tutto il Burkina” “davanti a un così grande mistero prosterniamoci e adoriamo il Signore”, ecceterà. Molti portano quegli stessi abiti anche nel quotidiano. Provo a trasportare la stessa scena in Italia, mi vedo al mio ritorno entrare in banca per un bonifico, accolta da un gentile e serissimo impiegato con una camicia verde a cerchietti bianchi e gialli che fan da sfondo a una moltitudine di fumetti che ripetono “Buon Natale, oggi Dio si è fatto carne per noi”. Sarebbe fantastico. Spesso da noi al momento dei canti i preti attaccano una cassetta, perché altrimenti cadrebbe il silenzio. Qui ci sono due cori che si sfidano, entrambi a due voci con tanto di direttore, più una serie di outsider che si fan sentire dalle retrovie. Ovviamente accompagnati da un'orchestra di percussioni. La cosa incredibile è che sono tutti intonati. A metà messa, dopo circa un'ora, la cerimonia si interrompe per un momento di pubblicità: due distinti signori salgono sul palco ed esibiscono due pagni preparati apposta in occasione della festa di Pasqua. Si enunciano i prezzi e le tariffe del sarto.

Al ritorno in comunità però le notizie non sono buone: Kinda è  peggiorato. La febbre è tornata. Riprendo l'accesso venoso. Ci organizziamo per quantificare la diuresi, ma già fa fatica a urinare, nonostante il diuretico ad alte dosi e la robusta idratazione. Aggiungiamo il mannitolo, diventiamo più aggressivi col cortisone, a forza di rovistare nei magazzini troviamo due flebo di chinolonico. La creatinina è salita a 7. dopo ghiaccio, stracci bagnati, paracetamolo, cortisone, il nostro miglior risultato è 39,8 esterna. L'anuria persiste. L'unica speranza è l'emodiafiltrazione: bisogna accompagnarlo a Ouaga. Si rincorrono le telefonate, per organizzare sin da qua l'assistenza, poi parte l'ambulanza. Lo accompagnano Somè, père Henri, frère Sorgho, Yeyè. Ricevo un sms: tutto va bene, tra poco arriviamo.

E invece dopo due ore arriva la telefonata: Gaétan Kinda, “the King”, è  deceduto all'ospedale universitario di Ouaga, mentre i suoi amici e colleghi attraversavano di corsa la città per comprare le provette per gli esami del sangue in un laboratorio privato, visto che il laboratorio dell'ospedale non è più agibile dopo l'inondazione di settembre scorso. Lascia una moglie, quattro figli e un grande vuoto nel cuore di chi l'ha conosciuto, anche solo per pochi giorni.

 

6-3 sabato.

Pensavo di dedicarmi a spese, bucato e giri in bici, ma dopo il giro si susseguono le urgenze in sala. Sembra che all'ultimo congresso panafricano di anestesia, cui ovviamente Some ha partecipato, abbiano sottolineato l'importanza dell'analgesia postoperatoria con oppiodi. E allora quale migliore occasione per iniziare di una maestra elementare con un orrendo ascesso ovarico, cui impostiamo un'infusione continua di morfina endovena? Bisogna solo stare mooolto attenti alle diluizioni, visto che la fiala è da 400 mg (per un attimo ho la visione di un enorme signore nero supersoddisfatto che si inietta tutta la fiala, poi mi viene il dubbio che sia per uso veterinario, ma pace, oggi ci serve)..la signora spera che Dio ci protegga, ma -considerato che la sua “piccola”, come la definisce lei, classe di 60 allievi l'aspetta- mi auguro che sia lei a esser protetta. Dopo una robusta sensibilizzazione degli infermieri del postoperatorio e un pattugliamento stretto della maestra, ci dichiariamo soddisfatti insieme a lei e ci dedichiamo alla seconda impresa della giornata: Bissirou. La nutrizione enterale sembra non funzionare granché, perché esce tutta dalla fistola duodenale, così ci lanciamo nel posizionamento di un cvc per iniziare una prudente parenterale: al letto del paziente, 40 gradi, non un esame della coagulazione..c'est l'anésthésie tropicale, direbbe Some. I rischi sembrano inferiori ai benefici, anche considerato l'interesse del mio collega, e con un po' di fortuna tutto va per il meglio. Bissirou dice che si sente già più forte e io incrocio le dita dei piedi, già che le mani sono occupate.

Il giro in bici salta del tutto, perché Kinda non migliora. L'abbiamo ricoverato e prosegue una robusta terapia con antibiotici. Chiunque passi gliene aggiunge uno. Poi arriva il cortisone. Il paracetamolo. Il ghiaccio. Le lenzuola bagnate. La febbre però resta alta. Gli esami del sangue non sono rassicuranti, ma verso sera sembra sentirsi meglio e fa anche cena. La malaria è così, dicono. Speriamo.

 

5-3 venerdì

Oggi niente sala. Giro visite con i chirughi e gli anestesisti stanziali, rappresentati da Some: Kinda oggi non è tanto in forma. L'ingegno e il lato umano di questa gente continuano a stupirmi: mancano i set di lavaggio vescicale? Si riempie in continuo una flebo vuota con acqua e betadine. I locals dicono che le infezioni sono rarissime. Per ogni paziente ci sono uno o due parenti che lo assistono. Dormono per terra, accanto a lui. Cucinano per lui (menu dell'ospedale: lunedì riso, martedì riso, mercoledì yogurt e couscous, giovedì miglio, venerdì pasta, sabato e domenica niente..), e soprattutto vanno a comprare per lui la terapia. Non soltanto le medicine, ma proprio tutto: siringhe, cotone, disinfettante, guanti. Quando si imposta la terapia occorre davvero pensare a tutto, una piccola dimenticanza può inceppare un meccanismo già piuttosto laborioso. Se ti cade una fiala, ti si tappa l'ago di una siringa, ti si coagula un'agocannula sei fatto. E così succede che una quindicenne possa morire di tifo, perché i genitori non hanno i soldi per comprarle l'antibiotico. Sempre per lo stesso motivo l'ospedale è un turbinio di colori: le lenzuola non esistono, ognuno si porta da casa dei pagno, coloratissimi teli di cotone multiuso: lenzuola, pigiama, gonna, camicia, saccoletto, fascia, portabambino, e ogni letto ne sfoggia diversi. Le persone ti accolgono con un sorriso, sono i pazienti a chiederti per primi come stai e difficilmente si lamentano. Comincio ad abituarmi alla loro gestualità, a quello strano modo che hanno di schioccare la lingua per dire sì. La cosa più buffa è l'intreccio linguistico: mi sentivo al sicuro col francese, ma molti parlano solo morè, la lingua mossi, prevalente nel paese, salvo i moltissimi esponenti delle varie minoranze linguistiche. La maggior parte parla più lingue e si procede per tentativi, fino a trovare quella comune. Alcuni si portano dietro un interprete. In altri casi è il vicino di letto a dare una mano, in ogni caso la soluzione si trova sempre. Quel che è sicuro è che tutti ti sorridono, la maggior parte ti benedice. Oltre le zanzariere delle finestre, butto lo sguardo sul mondo nel mondo dell'ospedale, il suo indotto: qui le centinaia di accompagnatori lavano, stendono, cucinano, chiacchierano, giocano, guardano la tivù.

Il pomeriggio scopro i primi due magazzini, con la loro preziosissima scorta di nutrizione parenterale: il pensiero corre a Bissirou, il “mio” ventottenne denutrito. Forse ho trovato il modo per rendermi utile.

Dopo faccio finalmente la conoscenza con il villaggio e i suoi bimbi: impazziscono per i miei capelli, non riescono a credere che, lisci e lunghi, siano veri, e quando commetto la leggerezza di invitarli a toccare, mi trovo otto piccoletti appesi alla testa. A questo punto tocca a me chiedere come diavolo fanno a portare qualunque cosa sulla testa senza farla cadere: inizia un allenamento forzato con i quaderni, interrotto solo dal furto degli stessi. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse rubato un quaderno.

 

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